Inquadrature... riflessioni a margine sul lavoro con l’immagine di se stessi

di Pierluca Santoro

Pubblicato sulla rivista Nuove Arti-Terapie n.18, Roma 2012

Abstract: riflessioni sul lavoro con l’immagine che viene fatto in fototerapia e videoterapia. Attraverso una serie di metafore narrative, vengono proposte alcune considerazioni sulla differenza tra l’immagine fissa e quella in movimento, tra la percezione e l’autopercezione e sul lavoro di cambiamento interiore generato dallo sguardo su se stessi.

Some observations on working with image in phototherapy and videotherapy. Through a series of metaphors and storytellings, a few considerations on the difference between the fixed and the moving image, the perception and the selfperception and on the work of inner change generated by the look on ourselves.

 

[…]
Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l'ho pregato, - ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine...
Eugenio Montale

 

Come in un gioco di specchi, dentro al quale è facile perdere l'orientamento, il senso stabile del posizionamento del corpo nello spazio, sarà capitato a molti di incrociare lo sguardo su un televisore ripreso a sua volta dalla telecamera che ne traduce l'immagine e di perdersi nella prospettiva infinita delle inquadrature una dentro l'altra. È una strana sensazione, terribilmente disorientante, perché lo sguardo non riesce a poggiarsi su nulla di singolare, in quanto ripetizione di se stesso all'infinito, e perché la prospettiva sembra non avere un orizzonte confinato. Un buco nero, praticamente.
Allora provi a irrigidire il tuo corpo, non muovere lo sguardo nel tentativo di allungare l'occhio nel profondo senza essere disturbato dal movimento, ma niente. Il vortice ti cattura, serra le fila, come un esercito compatto di ricami dentro al quale non puoi scorgere nulla se non la ripetizione di te stesso sempre uguale. E nella piccolezza di quella che sembra essere finalmente l'ultima immagine di te, cerchi un particolare, qualcosa di diverso sul quale soffermarsi e far transitare i pensieri; ma ancora niente. Ti accorgi con rassegnazione che l'ultima non esiste, ce ne è sempre un'altra pronta a sostituire la precedente con beffarda ossessività.
In questo caso, certo, tecnicamente si tratta semplicemente di una declinazione al plurale di una singola inquadratura, di un singolo soggetto che, nel suo ripetersi e rimpicciolirsi nella distanza esponenziale tra l'occhio della telecamera e il televisore, rimane fondamentalmente uguale a se stesso. La prospettiva rimanda alla possibilità infinita di variare qualcosa, ma che solo nella ripetizione forzata riesce a distanziare l'identità ufficiale del primo riflesso.
Anche il movimento, connotato da un ritardo simmetrico tra un riquadro e il successivo, sembra riprodurre questo disorientamento, quasi fosse l'affaticamento muscolare dell'occhio umano trasdotto in quello tecnologico. Identità ripetuta, o coazione a ripetere, come direbbe un grande maestro. Si, perché nell'infinito della ripetizione visiva è forse possibile identificare il vortice delle proprie stereotipie, stigmatizzate ad libitum in modo quasi da infastidire, rendere oltremodo percepibile la noia di se stessi. Detta cosi, questa considerazione un po' sartriana, sembrerebbe tranciare di netto la possibilità che della propria immagine ripetuta ci si possa compiacere, ma non è tanto questo il fulcro del discorso. Bensì il fatto che nella percezione della stereotipia, sia essa piacevole o spiacevole, si apre un varco sulla ricerca della novità. Uno spazio dialogico tra sé e il Me stesso-immagine, come dice il buon Rossi, che, se condotto nella direzione del desiderio da parte di un operatore della relazione d'aiuto, può diventare invece germoglio di nuove prospettive semantiche. Ecco allora che nella ripetizione si fa strada l'eco di una novità, una scintilla che se alimentata può dar vita ad un fuoco di emozioni e sentimenti nascosti dall'immagine stessa.
Tornando invece alle origini della percezione di se stessi mediata dalle immagini, nella mia vita, ho un ricordo vago di quando, per le prime volte, da piccolino, mi trovai di fronte a fotografie che mi ritraevano. Ma la stessa vaga sensazione di disorientamento, data dalla differenza che percepivo tra il me stesso abituale dello specchio e quello delle fotografie, la ricordo bene e può essere paragonata a quella descritta precedentemente. La sostanziale asimmetria che percepivo sulla linea verticale del mio viso che quotidianamente sentivo come tendente in una direzione, improvvisamente, sembrava essere stata ribaltata nella direzione opposta. “Cavolo! Ma il mio naso non era storto a sinistra anziché a destra?” Come poteva essere successo? Qualcosa non tornava. Chi aveva operato quella mutazione senza il mio consenso? Chi aveva osato cambiarmi i connotati?
Per un bambino, infatti, è già un passaggio fondamentale quello di riconoscersi allo specchio senza dover inglobare la percezione in qualcosa di fantasmagorico, che il riconoscere la differenza tecnica tra l’immagine fotografica e quella riflessa diventa un vero e proprio miracolo. Quando, poi, la consapevolezza che l’occhio della fotocamera si avvicina sensibilmente di più a quello degli occhi di chi ti guarda rispetto a quello dello specchio che traduce invece un’immagine ribaltata si fa strada, il disorientamento si trasforma in dubbio esistenziale. Possibile che io, nel qui e ora, non possa mai vedermi come gli altri mi vedono, ma che sia invece costretto in un paradosso percettivo per cui quanto più mi avvicino al reale-presente (attraverso uno specchio) tanto più tutto risulta essere il contrario di quello che è? Possibile che io debba avere restituita un’immagine di me stesso veritiera solo al passato (la fotografia), mentre nel presente mi devo rassegnare a un’illusione ottica? Solo un prodigio della tecnologia e l’uso della telecamera poteva ovviare a tale nefasto inconveniente. La ripresa e la riproduzione in diretta su schermo consentono infatti di integrare le due percezioni in una, risolvere in qualche modo il paradosso dello specchio e fornire nuove possibilità di confronto con se stessi. Certo, la possibilità di guardarsi negli occhi, come nello specchio, sarà probabilmente ridotta dalla distanza tra l’obiettivo e lo schermo, ma che importa? Basta accettare una piccola dose di strabismo e il gioco è fatto. Ora il dialogo tra me e il me stesso-immagine può cominciare, e non è più come nella fotografia un’immagine passata, bensì un’immagine che si modifica insieme al me reale, che segue la dinamica delle mie espressioni e che mi rimanda inevitabilmente il qui e ora delle mie emozioni.
Tuttavia, oltre al problema della distanza temporale e del ribaltamento di prospettiva tra l’immagine fotografica e quella dello specchio, c’è un’altra questione spesso trascurata che concerne la luce e come essa vada realmente a produrre la nostra percezione. Quando ci poniamo di fronte allo specchio, infatti, essendo i nostri occhi immersi nella luce con tutto il nostro corpo e con lo specchio stesso, bene o male otteniamo di ritorno un’immagine fedele dal punto di vista del rapporto luce/ombra. Cosi come vediamo infatti l’ambiente circostante, nello stesso rapporto di luminosità percepiamo lo specchio. Tutto torna in qualche modo. Ma in una fotografia, oltre allo scarto temporale prodotto dallo scatto rispetto alla percezione reale, esiste una profonda differenza di contesto che riguarda proprio la luce. Eviterei di inoltrarmi in discorsi tecnici sul diaframma della macchina fotografica e sulla qualità dell’immagine che registra perché non è tanto questo il punto del discorso. Piuttosto quello che mi interessa sottolineare è come, anche in questo caso, l’immagine fotografica sia espressione di un punto di vista “luminoso” praticamente nuovo ai nostri occhi. I rapporti con le ombre del nostro viso, del nostro corpo, in un certo senso di tutta la nostra figura rispetto ad uno sfondo che la comprende, muta improvvisamente la traccia mnemonica di noi stessi per anni edificata davanti allo specchio. “Mi fa troppo grasso, troppo magro…” sono alcune delle più comuni distorsioni percepite davanti a fotografie che ci ritraggono, come se l’incontro con noi stessi fosse un vero e proprio appuntamento al buio. Allora la domanda che sorge in noi spontanea diventa ancora una volta: “quale sarò io veramente?” quello magro dello specchio di casa o quello grasso della fotografia? Chi è più sincero? Lo specchio o la macchina fotografica? È ovvio che, se non facciamo di professione gli attori del cinema o comunque non siamo schiavi della bellezza esteriore del nostro corpo, il punto di vista estetico è solo subordinato a un concetto più complesso di bellezza del nostro apparire e di riconoscimento della nostra figura. Cioè, quello che emerge da un punto di vista psicologico è lo scarto tra l’”abitudine” di noi stessi e la “novità” di noi stessi, tra il ricordo di noi stessi e una nuova immagine che appare improvvisa, fatta di pieghe, simmetrie, ombre e colori ancora inesplorati.
Ultima, non per importanza, differenza tra l’immagine riflessa e quella registrata, sia essa fotografica o video-ripresa, sta ovviamente nell’osservatore. Se infatti lo specchio basta a se stesso in quanto materia riflettente, dietro a una macchina fotografica è invece necessario che ci sia un operatore. Chi è che ha scattato quella foto che mi fa così diverso dall’immagine che ho di me stesso? Chi ha rubato quella ripresa in cui non mi riconosco se non per il ricordo dell’evento registrato? Tempo fa mi sono imbattuto su internet in un filmato girato nel mio liceo quando io ero appena al ginnasio: avevo forse 15 anni, appena una matricola. La cinepresa girava tra i corridoi e nelle aule durante la vorticosa e tanto attesa ricreazione di mezza giornata. Decine e decine di facce, di corpi adulti e bambini, colori e rumori si alternavano sullo sfondo di quella che sembrava una vera e propria festa, e il mio sguardo non faceva altro che cercare di riconoscere connotati familiari, situazioni vissute, un me stesso ormai perso dentro i ricordi. Quando mi riconobbi, in alcuni fotogrammi di sfuggita, fu quasi un dejà vu, ma, subito dopo, una domanda mi nacque spontanea e inattesa: chi c’era dietro la telecamera a riprendere quella giornata? Di chi era quell’occhio indiscreto che si aggirava per la scuola come se fosse una mosca e che posava la sua attenzione ora su una o su un’altra persona, che entrava in una classe, usciva e intervistava magari un compagno? Non lo sapevo, non lo ricordavo. L’immagine allora continuava a rimanere sfocata, come se lo sguardo dell’osservatore non riconosciuto in qualche modo corrispondesse all’incertezza del mio ricordare, come se la mancanza di un pezzo fosse imprescindibile alla ricostruzione del puzzle della memoria. Quello nel frammento ripreso, tutto sommato, non ero io, mi dicevo. Ma dello stesso periodo, invece, ho tanti altri documenti fotografici in cui mi è più facile riconoscermi perché, di base, ricordo anche chi c’era dietro l’obiettivo, come se il tacito accordo o anche la semplice consapevolezza dell’esser ripreso, producessero da un lato un legame più saldo con il ricordo e consentissero dall’altro un più facile riconoscimento di me stesso. Ecco allora l’importanza dell’operatore, dell’occhio dietro l’obiettivo, delegato dal soggetto che si fa figura a catturare l’istante e condividerne l’esperienza. Davanti allo specchio si è soli, davanti alla macchina fotografica pure in qualche modo, ma il triangolo dinamico che si viene a creare tra il soggetto ripreso, l’obiettivo della camera e l’occhio dell’operatore, genera una discontinuità percettiva sensibile che, se accettata, porta ad una nuova esperienza percettiva di se stessi.
E non è importante quanto queste differenze siano reali o prodotte solo dal gioco approssimativo della macchina che le produce, sia essa un gioiello tecnologico o uno scarto di fabbrica: appaiono decisive, piuttosto, le infinite possibilità di dialogo che si aprono tra l’immagine di noi stessi così come ci piace ricordarla e nuove possibili inquadrature.

Bibliografia:

- Barthes R., La camera chiara, Einaudi, Torino, 1980.
- Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966.
- Buber M., Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1993.
- Manghi, D., Vedere se stessi, Franco Angeli, Milano , 2003.
- Massironi M., Fenomenologia della percezione visiva, Il Mulino, Bologna, 1998.
- Rossi O., Lo sguardo e l’azione, EUR, Roma, 2009.
- Schaeffer J.M., L’immagine precaria, CLUEB, Bologna, 2006.

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